In dialetto o in italiano, l'importante è dire-bene

Curiosa convivenza lessicale, del parlare in italiano per descrivere il dialetto veneto. Per non dire di chi parla in dialetto, sull’italiano. In entrambi i casi sempre lingua è. Anzi, comunicazione verbale che nasce e incarna un territorio. 

In dialetto o in italiano, l'importante è dire-bene

La questione cocente tiene banco in queste fredde giornate tra i banchi della politica veneta che, dopo anni di torpore linguistico, rispolvera “l’identità del logos”, cioè della lingua autoctona.

Vero è che il linguaggio fa parte del paesaggio, come un prodotto tipico sta al paesaggio stesso. Anzi, se il prodotto lo si assaggia, il linguaggio lo si deve ascoltare. L’ascolto è il primo contatto fisico che si ha quando si giunge in una nuova terra. Accade quando andiamo all’estero, più ancora se cambiamo regione o provincia standocene in Italia: terra di paesaggi e bilinguismi.

Dialetti e accenti. Basta spostarsi appena di una manciata di chilometri e il linguaggio muta, con sfumature più o meno evidenti. Ma cambia! Se il linguaggio è per sua natura mutevole, com’è difficile identificare come lingua unica quella veneta. Più corretto sarebbe parlare (e lo facciamo giustappunto in italiano) di lingue venete, che includono il padovano, veronese, rodigino, bellunese, vicentino e trevigiano. Con poi delle sottoclassi che ne complicano l’unicità: il padovano del nord da quello del sud. Quello costiero o dei monti. Insomma, il dialetto di cui si discute nelle aule politiche ha la sua più autentica conformità con il paesaggio stesso.

Ragion per cui, difendere un territorio significa anche includerne indissolubilmente la forma locale d’espressione.

Il Veneto che si vorrebbe “autonomo”, altro non è che un insieme di idiomi diversi e pittoreschi, che rispondono a un concetto di “tribalità linguistica”. Esiste ancora, lessicalmente parlando, la struttura del villaggio, rivisto oggi nelle provincie, dove non esiste un monolinguismo, ma un bilinguismo e alle volte anche un trilinguismo, per natura. Questione che torna di tanto in tanto con velleità politiche, dimenticandosi che ormai l’autentico dialetto veneto è andato perso.

Lo dimostrano gli studi dell’università di Padova, che invia i suoi studenti nello stato del Rio Grande do Sul in Brasile, dove dal 1887 vive una nutrita comunità di veneti emigrati che hanno conservato, come fossero in una riserva, l’antica parlata dei nostri “veci”. Un museo linguistico vivo, che ci fa capire quanto in realtà noi qui abbiamo perso in termini di espressione originale. Ze Nadae quindi. Se magna. Se sta in fameia (o femeia?). Se ciacoea. Se dise. Se cerca de star ben… e quel bene-stare, bene-dire che diviene per tutti un bene-essere torna sotto forma di italiano nazionale in questi giorni di festa.

Ma non sia quel “benessere da portafoglio” di cui il linguaggio contemporaneo ha rubato al primigenio il significato. Il precetto linguistico impone altro: essere e dire bene. Non tanto come rito di circostanza, ma autentica necessità dell’animo. Sentiamo tutti un gran bisogno di “serenità”, in questa compulsione nazionale dove il linguaggio politico e sociale si omologa a un decadentismo comunicativo senza precedenti.

Serenità invocata che apre all’“armonia”: altro straordinario termine che ci giunge dal greco harmonia che ha una radice nell’indoeuropeo ar, “stare assieme”, e dal greco aretè, “virtù”. “Armonia” che possiamo poi tradurre in termini sociali, ambientali e perfino cosmici. Se quindi come dice il vangelo di Giovanni, «In principio era il Logos», cioè la parola, la nostra forma di comunicazione e necessità di esprimerci non deve perdere il senso proprio “del parlar parole”, visto che siamo ciò che pensiamo e diciamo.

Il Natale resta quindi una delle ultime esperienze e speranze per assaporare l’armonia che invochiamo sotto forma di augurio. Una palestra anche “grammaticale”, dove misurarci con le parole e ricevere parole, quand’anche lo fossero solo d’abitudine o tradizione, sapendo che l’augurare del bene all’altro equivale alla potenza di un bene-dire. Atto liturgico quanto laico, affidato a ognuno di noi. Ricordarcelo aiuta il nostro bene-stare, la comunità in cui viviamo, il paesaggio che condividiamo. Un potere, quello del linguaggio, che val bene una tutela nel farci sentire nazione come pure figli di una identità locale, purché lo si usi con proprietà!

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